La confraternita dei sepolcri è un libro del genere horror fiction ambientato in un passo alpino di frontiera dove le vicende di una confraternita, contrabbandieri e militari si intrecciano durante una lunga ed improvvisa nevicata. Tutti i fatti ed i personaggi sono inventati e frutto della immaginazione. Differenti ambienti alpini sono stati d’ispirazione per l’evoluzione della storia, tra questi in particolare alcuni luoghi della via Spluga. A cominciare dalla tanto leggendaria quanto tardiva nevicata che bloccò per giorni il passo della Spluga, o come lo chiamano i romani del Cuneus Aureus. La vicenda principale segue la risalita del valico da parte di due militari che rimangono bloccati dalla neve tanto da dover abbandonare la macchina. L’intrecciarsi delle vicende li porterà, sfidando la neve, a raggiungere il passo. Conosceranno le storie di Schioppo, Fobo, Martina, Colletta e Kruse e diventeranno loro stessi una storia.
Un racconto che segue il ritmo delle stagioni attraverso un anno di vita del protagonista, biologo studioso di fauna selvatica, e i sui improbabili amici.
Una serie di brevi avventure contraddistinte dal divertimento, dalle sbronze nei locali di fondovalle e da un po’ di malinconia. Le vite dei protagonisti corrono su binari indipendenti salvo a volte incontrarsi o scontrarsi secondo logiche non sempre lineari. Su tutto, la montagna che osserva, abbraccia e in qualche modo protegge.
Trenta anni fa c’era un Papa in Cadore: Giovanni Paolo II, un Papa che ha fatto la storia. Basti pensare a quanto ha contribuito alla caduta del Muro di Berlino ed alla fine della contrapposizione in blocchi che, dal secondo dopo guerra, aveva diviso in due il pianeta e dato il via alla Guerra Fredda. E fu anche il Papa che portò sulla ribalta internazionale il Cadore, il Comelico e le vette Dolomitiche che definiscono queste stupende valli, decidendo di trascorrervi le sue vacanze. Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, oggi Santo, arrivò per la prima volta a Lorenzago l’8 luglio del 1987 e vi rimase fino al 14. Per poi tornarvi altre cinque volte, fino al 1998. Il libro “Il ricordo e l’emozione. A 30 anni dalle prime vacanze di Papa Giovanni Paolo II in Comelico e Cadore” di Stefano Vietina (Arco Edizioni, Padova, 176 pagine) parla proprio di quel primo soggiorno a Lorenzago, raccogliendo alcune testimonianze dirette, toccanti, emozionanti, espresse da persone semplici che se lo trovarono di fronte all’improvviso. Come un’apparizione. E che, a distanza di tanti anni, raccontano con immutato stupore l’emozione di avere incontrato di persona un protagonista della Storia. Papa Wojtyla con il suo pontificato aprì una stagione completamente nuova nella Chiesa: girò il mondo per evangelizzare, toccando ogni punto della Terra, senza mai fermarsi. E quando decise che era il tempo di riposare scelse il Cadore, perché amava profondamente la montagna, che aveva frequentato negli anni giovanili nella sua Polonia. In Cadore ed in Comelico ebbe l’opportunità di ritornare a contatto diretto con la natura, di contemplare i monti, di sostare nel fresco del bosco. Il panorama di queste Dolomiti cadorine gli era particolarmente congeniale, ed in particolare gli piaceva moltissimo la continua varietà del paesaggio: il prato, il pascolo, il bosco, le rocce, la neve, i corsi d’acqua. Di questo parla il libro: del suo rapporto genuino, franco, pronto alla battuta con i cadorini e di questa contemplazione del creato che qui gli apparve in tutta la sua bellezza. Con un rapporto tutto particolare con il Monte Peralba, la cui scalata rappresentò il momento in cui, come mai prima, arrivò così vicino al cielo.
Kurt Lauber ha salvato la vita di molte persone: guida di Zermatt e custode della capanna Hörnli, Kurt è il guardiano del Cervino. Racconta in maniera avvincente la sua esperienza di oltre mille missioni di salvataggio e fornisce una panoramica dell’appassionante (anche se a volte logorante) vita di tutti i giorni in rifugio ai piedi del “Re delle montagne”. Quando Kurt ha fortuna, è ancora mattina presto e il tempo è così buono che lui e i suoi colleghi del soccorso di Zermatt possono recuperare con l’elicottero qualche turista inesperto che si è sopravvalutato. Se va male, il terreno, le tempeste di neve e il buio permettono solo un salvataggio a piedi. Durante l’alta stagione, l’affluenza degli scalatori gli procura grandi sfide: in presenza di condizioni ideali, al mattino si mettono in cammino per scalare il Cervino più di cento alpinisti. Durante i periodo di brutto tempo, invece, la capanna può restare quasi deserta. Kurt Lauber racconta le sue vicissitudini durante le sue pericolose missioni di salvataggio sulle montagne intorno a Zermatt e descrive come lui e il suo team della capanna formino nel tempo una famiglia molto unita. È una cronaca impressionante di vita e lavoro davanti al panorama dell’imponente Cervino.
Tre amici partono alla fine di un gennaio particolarmente freddo per attraversare le Alpi da sud a nord, tra il lago Maggiore e il lago dei Quattro Cantoni. La loro meta è la statua di Guglielmo Tell ad Altdorf, nella Svizzera Centrale, dove giungeranno con gli scarponi ai piedi e gli sci in spalla dopo quattordici giorni di cammino.
Il viaggio inizia sulle montagne del parco nazionale della Valgrande, continua su quelle della val Vigezzo e Isorno,e, nella Svizzera italiana, nelle valli di Cimalmotto e Bosco Gurin che vengono percorse con le ciaspole a causa della scarsità di neve. Di nuovo in Italia e da lì con gli sci ai piedi,viene attraversata la val Formazza, e, in Svizzera, il Goms, il Furkapass, gli sterminati ghiacciai del Winterberg, la Gadmental, il Wendenjoch per terminare a pochi chilometri da Altdorf con la discesa sulla località sciistica di Engelberg.
Questo libro non è soltanto un racconto di avventure alpinistiche, che pure ci sono, ma anche un viaggio nella storia e nelle storie: dalla colonizzazione walser della Val Formazza al rastrellamento dei partigiani in Valgrande del giugno 1944, l’epopea della costruzione delle centrali idroelettriche, la descrizione dei mutamenti naturali notati sulle Alpi in più di cinquant’anni di assidua frequentazione dell’autore, per finire con la storia ben più lontana e forse solo leggendaria di Guglielmo Tell.
Francesca Brunetti racconta ai più piccoli la storia vera di Henriette D’Angeville che a metà Ottocento fu la prima donna a scalare il monte Bianco (organizzando una sua spedizione e arrivando in cima a piedi): sfidando pregiudizi e stereotipi, aprì una nuova via nel modo di vivere la montagna e all’alpinismo femminile. Henriette – la fidanzata del Bianco – fu una scalatrice formidabile per i suoi tempi e lasciò un prezioso diario della sua impresa. Una storia vventurosa tra boschi e picchi rocciosi, uomini miopi e donne coraggiose.
Il romanzo narra la storia dei Dorin, una famiglia di un piccolo paese alle pendici del Monte Pizzocco in Valbelluna. Le vicende raccontate si svolgono nell’arco di un intero secolo, l’800, e vedono i protagonisti misurarsi con gli eventi di portata storica che caratterizzarono quegli anni: le battaglie risorgimentali, gli ideali romantici, l’Unità d’Italia, le prime esplorazioni alpinistiche, l’emigrazione, in un altalenarsi di disillusioni individuali e collettive. Menuccio, uno dei membri della famiglia, sceglierà la via dell’eremitaggio, diventando un elemento scomodo per la sua comunità che gli attribuirà il titolo dispregiativo di “Lobbio”, personaggio leggendario dell’aspra e selvaggia Valscura. Menuccio troverà conforto alla sua solitudine in un prete anticonformista e nella montagna.
Parlami del Bivacco. Questa storia incomincia così. È una raccolta di racconti, frammenti di una storia vera, che negli anni ho ascoltato attraverso le parole di chi il Bivacco lo ha voluto, costruito, raggiunto. È la storia di un paese che si è stretto intorno a un amico perduto, per portarlo lassù tra le montagne, dove amava stare. Per sapere che continua ad esistere, che il suo amore per la montagna è oggi una porta aperta su una distesa di ghiaccio, a un passo dalla vetta. Per poterlo ritrovare là, negli spazi aperti e luminosi, nell’aria di neve, vicino al cielo. In una storia vivono tante storie.
Un viaggio a stretto contatto con la natura, che attraversa le stagioni e si apre alla bellezza degli Appennini, luoghi che ancora oggi mantengono Io purezza e l’attrattività del selvaggio, qualità che spesso attribuiamo a terre a noi lontane. L’autore si trova immerso in un viaggio che non è solo fisico. Egli indaga sull’essenza di
questi luoghi facendone emergere un’identità che sembro essere dimenticata. Vicende passate, come quelle di Annibale, di Celestino V, della Seconda Guerra Mondiale, si intrecciano agli avvenimenti del presente e della terribile successione di terremoti innescatasi nell’estate del 2016, trasformando un’avventura che si presenta come itinerario personale in un’esperienza universale. Luoghi, storie ed emozioni acquistano così vita, ponendosi come un invito d intraprendere un viaggio fra queste regioni in cui è ancora possibile sentire il fascino dell’avventura e ritrovarsi nell’intimo dei propri pensieri.
Un viaggio a stretto contatto con la natura, che attraversa le stagioni e si apre alla bellezza degli Appennini, luoghi che ancora oggi mantengono Io purezza e l’attrattività del selvaggio, qualità che spesso attribuiamo a terre a noi lontane. L’autore si trova immerso in un viaggio che non è solo fisico. Egli indaga sull’essenza di
questi luoghi facendone emergere un’identità che sembro essere dimenticata. Vicende passate, come quelle di Annibale, di Celestino V, della Seconda Guerra Mondiale, si intrecciano agli avvenimenti del presente e della terribile successione di terremoti innescatasi nell’estate del 2016, trasformando un’avventura che si presenta come itinerario personale in un’esperienza universale. Luoghi, storie ed emozioni acquistano così vita, ponendosi come un invito d intraprendere un viaggio fra queste regioni in cui è ancora possibile sentire il fascino dell’avventura e ritrovarsi nell’intimo dei propri pensieri.
Tic, nevrosi, isterismi, usi, costumi, intolleranze e atteggiamenti del popolo con le pelli di foca vengono smascherati e offerti al pubblico con un sorriso… per riappropriarsi di quello spirito e di quella leggerezza di cui tutti abbiamo bisogno… e le foche ci guardano e ridono delle nostre manie!
Il giorno in cui la famiglia trasloca nel New Hampshire, davanti agli occhi si apre un incanto: la casa è immacolata, le doghe di legno percorse dalle ombre del bosco, il tetto verniciato di un azzurro fiabesco. L’estate caldissima sembra non voler mai terminare, ma le allusioni misteriose nelle conversazioni con i vicini e i colleghi fanno presagire una minaccia. In un batter d’occhio arriva la neve, il grande fiume è già ghiacciato, bisogna attrezzarsi: le bambine e il cane ammirano in silenzio lo spettacolo bianco in cui vivranno per un anno. Tra sputaneve elettrici e cataste di legna, orsi nel giardino e incendi divampati nella canna fumaria, piste di fondo oniriche e impronte calcate nel bianco per essere certi di ritrovare la strada, la grande scoperta è che il gelo può diventare un membro della famiglia, una lente d’ingrandimento, un modo di sentire. L’esperienza quotidiana del freddo è un’avventura estrema, a cui non siamo piú abituati e che potrà sorprenderci come una possente rivelazione. Con la praticità dell’uomo di casa e lo sguardo del filosofo, Roberto Casati ha elevato un altare al freddo in mezzo a betulle sottili che in primavera finalmente raddrizzano la schiena.
Un racconto imprevedibile e fulminante, un manuale di sopravvivenza, una time capsule confezionata con amore pensando ai figli e alle figlie del riscaldamento del pianeta.
«Caro Ludovic, ti porterò in cima al Monte Bianco!» L’avventura comincia cosí, in una sera di fine ottobre innaffiata di chablis: Ludovic ha appena confidato a un amico che sta attraversando un periodo difficile, sua moglie vuole divorziare, sente di aver fallito in tutto. L’amico è lo scrittore Sylvain Tesson, esperto scalatore, celebre per i suoi libri e le imprese folli a tutte le latitudini. Per lui proporre la scalata del Monte Bianco come sollievo ai dispiaceri dell’amico è la cosa piú naturale del mondo! Ma l’impresa è davvero «un’impresa impossibile», o almeno cosí appare, perché Ludovic è un tipo sedentario, un animale da città, un fumatore accanito, un bevitore tenace, uno schiavo dei farmaci. E poi, ha paura. Paura dell’altezza. Ludovic – che oltretutto è un editor: categoria notoriamente poco avvezza alle vette – non possiede nemmeno un centimetro della stoffa dell’alpinista… tranne, forse, l’incoscienza che lo spinge a dire di sí. La partenza è prevista per fine giugno. Seguiranno mesi di dura preparazione scanditi da ginocchia doloranti, allenamenti su e giú per le scale della casa editrice, vani tentativi di darci un taglio con i vizi. Si unirà al duo la guida Daniel du Lac e lo scrittore e amico Jean-Christophe Rufin, anche lui alpinista esperto. Per raggiungere il tetto d’Europa, Ludovic si arma di un paio di scarpe della misura sbagliata, di scorte di Xanax e di una dose di insospettabile coraggio. Tra crisi d’ansia e paesaggi mozzafiato, vertigini invalidanti e percorsi impervi, Ludovic raggiunge la cima del Monte Bianco con i suoi amici. Da qui la prospettiva si rivelerà completamente diversa: per quanto impegnativo (e pericoloso!) il cammino che porta alla vetta è costellato di quelle scoperte in grado di mutare il corso di un’esistenza. L’ascensione del Monte Bianco è una storia vera, con un vero lieto fine. Un’avventura di montagna e di amicizia, di pericoli assurdi e di coraggio, ma anche una spiazzante riflessione sul nostro modo di affrontare la vita e la concreta possibilità di cambiarla.
Una narrazione delicata e intensa e una serie di racconti brevi formano un insieme vasto, profondo e variopinto. La vacanza in montagna si trasforma per l’autrice nell’occasione per fuggire – o ritornare, nel momento in cui ricorda e scrive – su un’isola lontana dal mondo, dove può osservare ogni cosa per tutto il tempo che merita e penetrare, descrivendola, fino alla radice delle cose. Così trasforma ogni gesto compiuto distrattamente nell’essenza del personaggio che lo compie, ogni parola detta e ogni parola taciuta nello specchio di un animo. Non c’è reale distanza nel suo osservare: l’autrice è sempre lì insieme alle persone che descrive, eppure il suo sguardo è così nitido da far sembrare quei luoghi reali e quei ricordi antichi e preziosi un mondo appena creato. Con le parole di un ammirato Pietro Citati: «Ora [l’autrice] lascia sulla carta tanti piccolissimi tocchi di una sapienza miracolosa: conosce tutti i luoghi, tutte le persone, tutte le ombre, tutti i misteri».
Il libro è una riflessione sul senso della vita, sulla sua personale volontà dell’autodeterminazione e del libero arbitrio. Sergio ha superato i sui settant’anni, trova lavoro, ampiamente fuori età, in una ferramenta a El Chalten, in Patagonia, sotto il Cerro Torre, una delle vette che più ha amato e dove ha scelto di tornare dopo molti spostamenti tra Italia, la sua patria, Uruguay e Argentina. Sono i suoi ultimi giorni, così ha deciso. Un attento sguardo dentro la vita del protagonista, porta il lettore, nello svolgersi della storia, a riconoscere i motivi della sua scelta più estrema: la morte del figlio dodicenne, proprio in montagna, in cordata con lui, oltre trent’anni prima. Da quel momento, per Sergio, solo fare finta di vincere, attaccato al quotidiano incedere del tempo e della cristallizzazione del ricordo. La scrittura in terza persona (voce narrante esterna che racconta) cerca la minuzia narrativa e fotografica, il dettaglio, come un quadro giornaliero di un’umana vicenda senza futuro, per questo solo al passato.
Un viaggio a piedi dalle montagne al mare, per ripercorrere i passi di una migrazione dimenticata lungo il confine orientale: Carnia, Friuli, Carso, Istria. Un flusso di persone sepolto e accantonato frettolosamente sul quale si sovrappongono gli sguardi allucinati dei migranti dei nostri giorni. Sono le storie di cui non abbiamo più memoria. S’intrecciano, si sedimentano le parabole degli uomini costretti a lasciare la propria casa, i cimiteri di paese e il greto di corsi d’acqua asciutti, narrazioni leggendarie sopra i viaggi delle farfalle, canzoni dialettali, fuochi accesi, tabacco di contrabbando. Sono tanti fogli di carta velina impilati, ognuno dei quali mostra qualcosa: il mito asburgico, i toponimi sloveni, italiani, istriani, triestini, friulani e camici, l’odore di caffè tra i boschi di larici, il mare Adriatico che bagna le aspre rocce carsiche, la terra rossa e gli ulivi che accolgono i viandanti. Camminare sulle orme di uomini dimenticati. Capire qualcosa in più del nostro essere migranti. Passo dopo passo, nel vuoto.
La montagna è anche nello sguardo di chi cammina, nel ritmo del passo, nei respiri dei tuoi compagni che si mescolano. La montagna è salita e discesa, simbolo perfetto dell’evoluzione di una vita. Sono i piedi e il fiato di Pietro che viaggiano lungo il sentiero impervio della sua esistenza.
I momenti fondamentali della vita di Pietro sono segnati da quattro ascese ad altrettante montagne. Salite dove il fantasma della felicità appare e scompare, vicino ma inafferrabile.
C’è il Monte Dolada, sull’Alpago, in provincia di Belluno, spartiacque tra l’infanzia e l’adolescenza, dove lui, bambino di nove anni, intuisce il significato della morte e dell’amore. C’è il passo Vršič, in Val Trenta in Slovenia, dove Pietro, trentenne, in compagnia di un amico e del fantasma di Julius Kugy, impara che le certezze possono sciogliersi come neve al sole. C’è il monte Canin, fra Friuli e Slovenia, in cui il protagonista, camminando con il padre, capisce il senso del tempo, e l’impossibilità di tornare indietro. E infine c’è il Montasio, nella Alpi Giulie, una salita sospirata da una finestra di una casa in un piccolo borgo di dieci abitanti e mai compiuta. Perché il silenzio si è portato via tutti i sogni.
Non sei mai stata tanto sola come lo sei ora. Non hai né un marito, né un figlio, né un compagno o un amico stretto, un socio, un partner con cui condividere una vita. Da più di dieci anni non hai più i genitori. Allora parti, ti metti in cammino. E ricordi. I passi sono come rintocchi, calpesti la terra dei tuoi padri ed è come se li resuscitassi. Comincia così un duro viaggio in compagnia dei tuoi demoni. Sei una bambina tormentata, un’adolescente infelice, una ragazza attraversata da sofferenza e dolore. Fai carriera, hai successo, eppure stai male, incontri la morte e non riesci a guardarla negli occhi, potresti dare la vita e scegli di non farlo. Abbandoni il lavoro, abbandoni la casa e parti. E oggi, che sei sulla strada e senti per la prima volta il peso della solitudine che ti ha accompagnata per tutta la vita, decidi di affrontarla, di capire perché la vuoi, la cerchi, la desideri così ardentemente. Contro tutto e tutti.
Sullo sfondo della natura integra, dura e bellissima della Vallarsa, colta nei profumi e nei colori delle quattro stagioni, la voce narrante della Aste dipinge l’affresco di una vita fuori dal comune. Dal caos della città, attraverso un lungo avventuroso viaggio esistenziale, per approdare infine al silenzio denso e generoso delle cime, il libro traccia il percorso di un uomo che ha fatto della montagna il suo sentiero di vita e conoscenza. E anche ora che la malattia gli preclude la salita al Corno, Mario continua a camminare lungo le pietraie bianche del monte che gli ha fatto da Maestro, nel ciottolio fine delle schegge di roccia che si sgretolano dalle pareti a picco. Seduto sulla panca della sua cucina, nel silenzio quieto della sua Obra, Mario rispecchia dentro di sé l’ombra affilata della montagna, proseguendo con coraggio il suo sentiero.
Cinquant’anni dopo l’apertura della prima via alpinistica sulla Pietra del Finale, due fratelli appassionati di montagna, decidono di dar luogo ad un’avventura ripercorrendo le tracce dei pionieri che per primi diedero inizio alla storia arrampicatoria di questo luogo. Ne scaturisce un viaggio selvatico alla ricerca di memorie, racconti, tracce, scoperte. Un vagabondaggio in verticale per esplorare gli altipiani e attraversare le tredici principali pareti del Finalese, ma allo stesso tempo un incontro e confronto con i protagonisti di allora, testimoni di un’epoca irripetibile.
Manolo. Il Mago. O, semplicemente, Maurizio Zanolla. Un ragazzo cresciuto in un ambiente che vedeva le montagne solo come fonte di pericoli, e che un giorno, quasi per caso, ha scoperto il fascino della roccia. Un mondo verticale retto da regole proprie, distante da costrizioni e consuetudini della società, capace di imprimere una svolta al suo destino. Così, al rumore della fabbrica e a una quotidianità alienante si è sostituito il silenzio delle vette. Uno dei più grandi scalatori italiani e internazionali, che ha contribuito a cambiare per sempre il volto dell’arrampicata, racconta per la prima volta come ha scelto di affrontare le pareti alleggerendosi di tutto, fino a rifiutare persino i chiodi. Nella convinzione che la qualità del viaggio fosse più importante della meta, e che ogni traguardo portasse con sé una forma di responsabilità. La famiglia, gli affetti, le esperienze giovanili, gli amici delle prime scalate, le vie aperte spesso in libera e in solitaria, il tentativo di conquistare gli ottomila metri del Manaslu, fino a capolavori dell’arrampicata come Eternit e Il mattino dei maghi: Maurizio Zanolla ripercorre gli anni – tra i Settanta e gli Ottanta – che l’hanno portato alla celebrità. Non un elenco di scalate, o delle vie più difficili, ma l’affresco delle esperienze più significative, più intense e toccanti di una vita vissuta alla ricerca dell’equilibrio.
Lucio ha quattordici anni e da piccolo ha perso la vista. Ricorda ancora i colori e le forme delle cose, ma tutto adesso è avvolto dal buio. Ama la montagna, dove va spesso con Bea, la zia che adora, quella della sciarpa di seta, perché lì i suoi sensi acutissimi gli mostrano un mondo sconosciuto agli altri. In montagna tutto è amplificato, e il vento porta profumi, suoni e versi di animali, cui non facciamo quasi più caso. Lucio se ne inebria, li conosce meglio di quanto conosca se stesso, cammina e si arrampica per i sentieri con più sicurezza di molti ragazzi di città. Ed è proprio tra quei monti, sulle Dolomiti, che, durante una passeggiata sul Picco del Diavolo con la sua nuova amica Chiara, la storia di Lucio si intreccia a quella di un aquilotto, Zefiro, rapito da bracconieri senza scrupoli. Tutto sembra perduto, ma la Montagna freme di vita e indizi, e potrebbe rivelare la verità a chi, come Lucio, la sa ascoltare…
Trentacinque interviste, che raccontano un secolo di arrampicata e avventura. Negli “incontri” di Stefano Ardito sfilano star della montagna come Walter Bonatti e Reinhold Messner, e protagonisti dell’alpinismo di oggi come David Lama, Adam Ondra, Alexander Huber, Maurizio Zanolla “Manolo”, Stefan Glowacz, Christophe Profit e Steve House. Le interviste con Edmund Hillary, Doug Scott, Jerzy Kukuczka, Chris Bonington, Nives Meroi e Simone Moro raccontano come sia cambiato nel tempo l’alpinismo himalayano. Altri “incontri”, realizzati qualche decennio fa, ci permettono di scoprire delle avventure più remote. Il K2 di Fritz Wiessner, Ardito Desio ed Erich Abram, il Kenya di Felice Benuzzi, il sesto grado di Domenico Rudatis e Gino Soldà, lo Yosemite di Jim Bridwell, il Tibet di Fosco Maraini e di Heinrich Harrer. L’intervista con Pierluigi Bini racconta di arrampicate sul Gran Sasso, un massiccio molto caro all’autore. Nelle interviste, realizzate e scritte con competenza e passione, compaiono le speranze, le paure, le idee, i sogni, il ricordo di amici e compagni scomparsi. Perché l’avventura in montagna è una pagina straordinaria di vita.
«Anni fa un luogo speciale entrò per sempre nel mio cuore: l’Arctic National Wildlife Refuge, uno degli ultimi paradisi terrestri a rischio di devastazione nel caso le trivelle petrolifere ottengano il via libera. Da allora continuo a tornare lassù: poiché ho compreso che sì, esistono il Polo Nord e il Polo Sud; e che esiste anche il Polo del Freddo in Siberia. Ma quello che ho trovato all’estremo nordest dell’Alaska non è l’oro, non sono le pellicce, non è niente che si possa sfruttare economicamente. Quello che ho scoperto quassù è il Polo della Bellezza. Un posto che ci restituisce il significato più profondo del nostro essere umani, un luogo dove il nostro spirito si rinnova anche se viviamo a migliaia di chilometri di distanza. Per il nostro bene e per il bene dei nostri figli è importante sapere che un Refuge così ancora, anche se non si avrà occasione di andarci.» Fra Caribù, Orsi Grizzly, Lupi, Uccelli migratori, il bianco accecante della neve, il verde e il viola intenso dell’Aurora, Ario Daniel Zhoh descrive un viaggio ai limiti della purezza assoluta, in solitudine e in autosufficienza. Viaggio che non ha come obiettivo alcun record se non quello di offrire un piccolo contributo individuale alla causa di tutta l’umanità.
Dove si trova Caporetto? Pochi lo sanno. Il villaggio nella valle dell’Isonzo, oggi conosciuto con il nome sloveno di Kobarid, è un buco nero della geografia e della storia d’Italia. Il Piave e il Monte Grappa invece tutti sanno dove sono: sotto casa. Impressi per sempre nella toponomastica dei nostri paesi e città. Memorie censurate, nomi trasfigurati dal mito della Vittoria. Ma Caporetto, Piave, Monte Grappa sono (anche) luoghi reali. Sono il punto di partenza e il traguardo di un viaggio durato un anno, dall’ottobre 1917 al novembre 1918. Un anno di invasione, di stragi, di fame, durante il quale l’Italia ha rischiato di perdere se stessa. Per ritrovare infine, contro ogni previsione, una sua controversa identità. Paolo Paci ci conduce passo passo nell’itinerario dalle Alpi Giulie ai contrafforti delle Prealpi venete, seguendo le tracce di un esercito in rotta e di un altro in trionfale avanzata. Tra ossari e diari di guerra, canzoni e trincee, film e musei spontanei, ritroviamo la verità geografica dei luoghi. Scoprendo, nel racconto degli abitanti (nipoti e pronipoti degli antichi soldati), come la memoria della Grande Guerra sia ancora straordinariamente viva. Un po’ business, un po’ nostalgia. E, in fondo, frammento del nostro Dna.
Il primo amore di Cecilia è una fisarmonica dal mantice di cartone. Grinta, passione e irresistibile comicità, lei è un fiume in piena che prende a morsi la vita.
“Te lo giuro sul cielo” racconta l’esilarante e incontenibile epopea di un piccolo mondo antico che ha lasciato tracce indimenticabili. Che ha piantato radici profonde. Luigi Maieron compone la sua narrazione e i suoi ricordi come in un romanzo, ci porta indietro nel tempo, tra le montagne di Carnia, in Friuli, in un paese minuscolo il cui nome significa “circondato dai venti”. Istinto e magia, carisma e imprevedibilità hanno trovato casa per molto tempo a Cercivento, con Augusta, Pio, Genesio, la comare Teresine, Nodâl, Anna, Nêl, una galleria di personaggi singolari e irresistibili che l’autore immortala con immagini precise e toccanti, senza mai tradire il dialetto, lingua che mostra la vita tralasciando fronzoli e mediazioni. Un omaggio a una terra, la Carnia, che sembra un’invenzione letteraria. Una presenza viva in ogni pagina. Una storia che consegna un messaggio senza pretendere di dare lezioni. Semplicemente raccontando un modo di vivere e di stare al mondo che oggi sembra non essere più possibile. Un modo non sempre giusto, ma autentico, semplice e schietto. Vero.
Perché fuggiamo dalla civiltà per scegliere la solitudine, la semplicità di una vita nei boschi o fra le montagne? È a questa domanda che vuole dare risposta Marco Albino Ferrari mettendosi in ascolto del suo desiderio per i grandi spazi naturali, per un silenzio lontanissimo dal nostro tempo. L’avventura che vive e racconta in queste pagine cariche di emozione si svolge a pochi passi dalle nostre città, in Val Grande, fra Piemonte e lago Maggiore, luogo insidioso, ostile, popolato dai fantasmi di una società pastorale svanita fra rocce e tronchi. Sul Sentiero Bove – prima alta via storica d’Italia dedicata all’esploratore Giacomo Bove -, l’autore muove i suoi passi e la sua narrazione: un’escursione impegnativa e ormai quasi dimenticata in un teatro della “potenza della natura che si riprende ogni cosa”. Come Bove durante le sue esplorazioni, bloccato nello stesso biancore artico che aveva ossessionato Edgar Allan Poe, Ferrari nella natura selvaggia cerca l’ignoto, la paura di smarrirsi e la nostalgia di quel timore una volta recuperata la sicurezza. E ricostruendo la vicenda di Bove (morto suicida a 35 anni) l’autore incrocia figure inattese: Emilio Salgari, il comandante Nordenskiöld, Edmondo De Amicis, il naturalista Mario Pavan. Storie di isolamento, di una prigionia degli elementi che fanno riscoprire una libertà più profonda, perché “sulla via incantata si basta a sé stessi”.
Lunghe traversate da un capo all’altro della Norvegia, su isole popolate solo di nidiate di uccelli, in mezzo a paesaggi rocciosi e selvaggi, per giorni o settimane, senza compagni e senza mappe, nel silenzio più assoluto. Sembra un’immersione nel vuoto, invece è un’esperienza totalizzante: non sono gli altri a segnare la via, siamo noi a sceglierla a ogni passo. L’attenzione si acuisce, la presenza si fa costante: solo così il cammino è vero incontro con un ambiente partecipe. Le acque che scorrono tracciano il percorso, il vento e la pioggia dettano il passo, gli animali si allertano e seguono l’andare umano. Franco Michieli, geografo ed esploratore, da quasi quarant’anni alterna avventure in solitaria, in coppia e in gruppo, su strade battute e in luoghi disabitati, affidandosi alle indicazioni della natura, certo che il varco si rivelerà da sé. In questo libro ripercorre alcuni dei suoi viaggi – dal whiteout del deserto lavico islandese alle ascensioni andine tra insediamenti di antica spiritualità – rimettendo in discussione l’idea di compagnia: siamo più soli nella folla cittadina, dove la miriade di stimoli si spegne in un bombardamento fragoroso, che nell’isolamento dei boschi, in cui il silenzio, per chi sa ascoltare, si fa denso di voci. Qui, lontano dai condizionamenti tecnologici, riemerge la nostra connessione primordiale e istintiva con la natura e con i nostri simili: come può esserci solitudine fra tanta animata bellezza?
A Tolmezzo in un sabato sera di fine settembre accadono due fatti misteriosi: dal Museo Carnico le note di un Notturno di Chopin arrivano alle orecchie degli avventori del bar sottostante, e del clima del campanile del duomo scompare l’angelo anemometro. L’ispettrice Beatrice e il suo collega Dino cercano di risolvere il caso, attraverso vie e piazze tolmezzine. Il signor Golubev, attore di scuola russa, arriverà in loro soccorso rivelando che l’angelo nient’altri è che un professionista, il quale ha un conto in sospeso con il fratello musicista. L’incontro tra due arriverà nella sala del museo che ospita i Fazioli.
L’opera punta a catturare l’attenzione in due epoche differenti ma intrecciate tra loro. C’è la storia di due giovani innamorati che vivono in un piccolo abitato di origine celtica nel 1340 in Carnia. Il loro amore però è ostacolato da una Agana. Poi c’è la storia di una ragazza che trova, nel 2004, a casa sei suoi bisnonni un sasso scolpito che proviene da questo antichissimo villaggio che porta con sé una leggenda: la leggenda delle mosche bianche.
All’estremità meridionale dell’Argentina, tra sterminati ghiacciai e le estepas ondulate della Patagonia, sorge una guglia di roccia e ghiaccio, alta 3.128 metri: il Cerro Torre. Considerata da molti la vetta più bella e di maggior attrattiva del mondo, ha visto i tentativi degli alpinisti più tecnici e tenaci. Reinhold Messner, tra i più grandi di sempre, lo ha definito “un grido di pietra”.
Un libro che, oltre a essere un sogno vissuto, è il ricordo di un passato nel quale il vecchio autore, con la scusa di essere stato anche uno scalatore e prima ancora un alpinista, racconta la sua vita di pietra.
Sì, perché quella pietra l’ha fatto guardare a uno specchio che gli fece vedere anche ciò che non avrebbe mai voluto.
Ma in quei sassi mise il suo cuore e li feci rivivere. Così gli raccontarono anche quello che non aveva mai visto e sentito. Visto che crede, questo zingaro saraceno, in un’anima che non vuole proprio morire, dialoga con i fraterni amici che non ci sono più, lui sopravvissuto a una stirpe di eroi.
Li racconta, con distacco, con amore, con schiettezza, perché sa che si ritroveranno un giorno dietro alla grande porta, a cantare tutti assieme il loro canto libero.
Bruno Tassi, per tutti “Camós” (camoscio), ha rappresentato a livello nazionale uno dei più importanti pionieri del free climbing. Negli anni Ottanta la sua totale dedizione a questa disciplina, che poi prese il nome di arrampicata sportiva, lo annovera tra i più forti arrampicatori dell’epoca e le numerose vie che ha aperto parlano ancora di lui. La falesia di Cornalba, in Val Serina in provincia di Bergamo, rappresenta la sua opera d’arte assoluta e l’ambiente ideale nel quale i suoi sogni e le sue visioni si sono realizzate al meglio.
A dieci anni dalla tragica scomparsa, questo libro vuole presentarci il Camós nella forma più completa possibile: come rocciatore, arrampicatore e alpinista, ma soprattutto come uomo! Un personaggio difficile, spigoloso, discusso per i suoi comportamenti, ma amato e apprezzato per la sua maestria nell’arrampicare, la sua schiettezza tipicamente bergamasca e il suo poetico amore per la natura e la montagna.
Il suo carisma e le sue sfaccettature saranno tratteggiati nei racconti e nelle testimonianze dei suoi amici e di chi l’ha vissuto principalmente, ma il suo essere estremo nell’arrampicata e nei suoi eccessi lo si ritroverà qui anche nella profondità delle riflessioni che lui stesso appuntava parlando di natura, amore e filosofia.
Una storia, quella di Bruno Tassi, che viene in questo libro simbolicamente racchiusa in un ideale abbraccio, quello tra la prefazione di Simone Moro (il suo più grande discepolo) e il saluto finale di Mauro Corona (il suo più grande amico d’intesa spirituale).
Una lettura che darà la piena consapevolezza di chi è stato il Camós e di quanto oggi si senta sempre più il bisogno di raccogliere la sua eredità.
Everest, Shisha Pangma, Annapurna, Cho Oyu, Broad Peak, K2, Manaslu, Lhotse, Makalu, Dhaulagiri: nomi che echeggiano nell’immaginario collettivo come luoghi remoti, quasi inaccessibili. Sono gli Ottomila, le montagne più alte del Pianeta. Marco Confortola ne ha già scalati dieci, e ognuno è stato una storia di fatica e soddisfazioni, rinunce e attimi di pace assoluta, sudore e amicizie ad alta quota con uomini straordinari, da Silvio “Gnaro” Mondinelli a Denis Urubko a Krzysztof Wielicki e molti altri. Pronto a rialzarsi anche dopo la tragedia che l’ha visto coinvolto sul K2, nella quale sono morte 11 persone e ha perso tutte le dita dei piedi per gli effetti del congelamento, Marco non ha smesso di “cacciare”, ed è deciso a conquistare la quattro cime che gli mancano per completare la “collezione degli Ottomila” e assecondare così quell’istinto che sin da bambino lo portava a salire sempre più in alto.
Per circa quarant’anni i diari di Ettore Castiglioni sono rimasti ignoti al pubblico. Vennero editati nel 1993, raccogliendo dal vastissimo materiale manoscritto i passaggi più significativi, con le avventure vissute sulle Alpi, in Patagonia, o durante i mesi bui del 1943, quando l’autore si spese per condurre in salvo oltre il confine elvetico centinaia di profughi in fuga dalla guerra e dalle leggi razziali. La voce del grande alpinista ed esploratore milanese poté così rivivere in un volume, e il pubblico l’accolse riconoscendone la compostezza, il valore morale e la forza evocativa. Un testo intimo e al contempo trascinante, avvincente, quasi Castiglioni pensasse a un futuro lettore. Per questo Il giorno delle Mésules occupa oggi un posto di primo piano sullo scaffale dei classici della montagna. Le grandi ‘prime’ sulle pareti dolomitiche, i ritratti dei ‘sestogradisti’ più forti legati alla sua corda – Detassis, Bramani, Vinatzer, Boccalatte -, le lunghe camminate solitarie su sentieri d’autunno, le notti al pianoforte, la medaglia conferitagli dal Duce e gli slanci di disprezzo per quel machismo spaccone e «delittuoso» incarnato dal Regime. Fino all’attività clandestina che lo condurrà ai suoi ultimi misteriosi passi nella bufera, a 2500 metri.
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